I blog personali: manicomi con connessione Wi‑Fi
C’erano una volta i blog personali. Gente che scriveva di sé, delle proprie paranoie, di quanto facesse schifo il lunedì e di quanto fosse speciale la propria solitudine. Poi sono arrivati i social, e tutti hanno deciso che potevano fare gli scrittori senza scrivere: bastava postare una foto di un cappuccino con la didascalia “momenti semplici”. Fine della letteratura.
Oggi chi tiene ancora un blog è un superstite. Un disadattato digitale che non ha voglia di ballare davanti a una camera. Uno che preferisce raccontarsi con frasi, non con balletti. Ma in fondo anche lui mente: scrive per sentirsi unico, ma spera che qualcuno lo legga per sentirsi normale.
Un mio amico aprì un blog per “sfogarsi”. Dopo tre mesi lo chiuse perché nessuno commentava. Disse che la gente non capiva. Io dissi che forse la gente aveva solo cose migliori da fare. Non ci parliamo più, ma oggi ha un account motivazionale su TikTok. Seguito da dodicimila pecore.
Morale: quando scrivi per essere capito da tutti, finisci per parlare come nessuno.